A cura di Anna De Romita – educatrice cinofila Bari
Vorremmo sempre sentire storie meravigliose sui cani come la toccante vicenda della piccola Julia, una bambina polacca di soli tre anni e mezzo che si era imprudentemente allontanata dal cortile di casa ed è stata ritrovata, infreddolita e spaventata, dopo ventiquattr’ore di ricerche disperate, abbracciata al cane Czarue, un meticcio conosciuto in tutta la zona. Considerate le temperature proibitive (-5° C), Julia è sopravvissuta, ed è ora felicemente tornata nelle braccia dei suoi familiari, soltanto grazie al calore del corpo del premuroso vagabondo a quattro zampe.
Un cane di tutti e di nessuno, Czarue, un cane come tanti randagi che siamo abituati a vedere nelle nostre città o nelle periferie o campagne circostanti…cani a volte definiti impropriamente (e più avanti vedremo perché impropriamente…) “cani di quartiere” perché chi abita nella zona è abituato ad incontrarli e, magari, di tanto in tanto, a elargire del cibo o qualche coperta o un vecchio scatolone di legno come cuccia.
Sono cani più o meno socievoli e inclini al contatto umano ma tutti ugualmente liberi e indipendenti, a volte solitari, a volte legati dall’appartenenza ad un branco. La loro sorte è, però, incerta e la loro esistenza è quotidianamente messa alla prova non tanto, e non solo, dal probabile incontro/scontro con altri cani quanto dalla necessità di sopravvivere, cioè trovare di che nutrirsi e con chi riprodursi…il che non è poi cosa tanto facile nelle nostre “giungle metropolitane”.
C’è un fatto che difficilmente qualcuno potrà contestare ed è che in natura i cani sarebbero liberi di scorrazzare, dormire, soddisfare tutti i propri bisogni fisiologici, decidere se e con chi legarsi, stabilire gerarchie che regolino ogni loro attività e comportamento. In natura ci sarebbero a disposizione ripari, animali da cacciare e di cui nutrirsi, altri cani con cui collaborare o con cui riprodursi, altri animali (incluso l’uomo) con cui cooperare o da cui difendersi.
Insomma, la vita del cane sarebbe ben diversa da quella che vive nei contesti urbani! Il cane ha scelto da secoli di crescere e vivere a fianco dell’uomo così come l’uomo ha scelto tra gli animali il suo “preferito”. Entrambi hanno ricavato vantaggi dalla convivenza, vantaggi non meramente materiali ma anche sociali, affettivi, comunicativi. L’uomo e il cane continuano a trovare ragioni per relazionarsi l’uno all’altro, continuano a lavorare, a giocare, a “parlarsi”, a vivere insieme ma a quanto ha rinunciato il cane in nome dell’amore e della dedizione all’uomo?
Gli uomini hanno stravolto il territorio, respinto prati e alberi sempre più ai margini delle città se non del mondo stesso, inquinato l’aria, la terra e l’acqua e maltrattato animali in nome della medicina, dell’estetica, del divertimento o, semplicemente, per profitto, egoismo e presunta superiorità di razza.
Ora, i cani randagi “disturbano” la nostra serenità, la sicurezza e il “decoro”delle strade. Qualcuno li tollera, qualcuno cerca di accudirli, qualcuno li odia ma siamo tutti consapevoli del fatto che sono, magari, figli di una cagna abbandonata da un proprietario “in difficoltà” oppure sono essi stessi protagonisti di una storia di abbandono e improvviso rifiuto da parte di qualche odioso essere umano?
E quando ci rechiamo alla più vicina stazione della Polizia Municipale per denunciare la molesta presenza di “quel meticcio aggressivo che improvvisamente ha iniziato a ringhiare, abbaiare e che ha già tentato di mordere me e i miei figli…!” ci siamo soffermati a riflettere sul perché quel cane “improvvisamente” aggredisca chi gli capita a tiro? Ci siamo chiesti se abbia avuto in passato una casa, chi l’abbia cresciuto e come, che tipo di esperienze abbia avuto con l’essere umano, se qualcuno l’abbia picchiato o scacciato, da quanto tempo stia girando nel nostro quartiere, se sia in salute, se ci siano altri cani con lui o se sia solo, cosa hanno detto o fatto le persone che sono state vittime delle sue intimidazioni o aggressioni…?
Molte di queste domande resteranno, ovviamente, senza risposta perché molto spesso ci è preclusa la possibilità di ricostruire il passato di un randagio ma ciò non significa che sia inutile porsi quelle domande.
Le domande ci aiuteranno come punti a partire dai quali elaborare ipotesi e strategie di intervento per evitare che si ripetano spiacevoli incidenti di cui non sappiamo spiegarci la ragione e che troppo spesso liquidiamo come terribili episodi di “follia animale”.
Le domande possiamo e dobbiamo porcele tutti noi, da comuni cittadini o da professionisti della cinofilia. Poi spetta ad ognuno fare ciò che è nel proprio potere e nelle proprie capacità e abilità…per creare, utilizzando una parola spesso abusata ma di cui forse ancora al giorno d’oggi non si coglie pienamente il senso, sinergia!
Tutti insieme: i cittadini rispettano e imparano a conoscere il cane, le istituzioni investono in progetti che sensibilizzino l’opinione pubblica nei confronti della natura e della diversità specifica del cane, le varie categorie professionali collaborano con i propri apporti specialistici e tutti ci si muove ed impegna nella direzione del benessere di tutti, cani e umani, cani di proprietà e cani randagi o “di quartiere”.
Ora torniamo alla definizione iniziale, appunto, “cane di quartiere”. In realtà, non ogni randagio che si stabilizzi in una zona della città è da considerare automaticamente “cane di quartiere”. La definizione, infatti, riguarda quel cane che viene considerato “bene comune” e, pertanto, accudito da tutta la cittadinanza che si fa carico di raccogliere le firme che attestino l’accordo di tutti i residenti.
Attraverso un iter diversamente regolamentato da regione a regione (non esiste, infatti, una normativa nazionale) si ottengono le autorizzazioni dell’Asl e del Comune di competenza per far sì che un cane randagio, o adottato presso un canile, possa vivere liberamente nel quartiere senza essere allontanato e con la garanzia che ci sarà sempre qualcuno per sfamarlo, curarlo e accudirlo. Coloro che si proporranno come responsabili in prima persona avranno cura che il cane sia microchippato, vaccinato, sterilizzato; si occuperanno della salute, del vitto e dell’alloggio dell’amico a quattro zampe e lo doteranno di una medaglietta di riconoscimento. Ovunque, infine, le istituzioni raccomandano di assicurarsi che il cane sia “socializzato” e non aggressivo verso altri cani e persone. E, spesso, è forse proprio quest’ultimo punto a scoraggiare molti dal prendersi carico di questa responsabilità e diventare “mamme” o “papà” di un “cane di quartiere”.
La soluzione potrebbe essere quella di rivolgersi a educatori professionisti che possano consigliare e sostenere cittadini ed istituzioni in iniziative lodevoli come questa.
E, perché no, il “cane di quartiere” potrebbe essere preparato per ottenere il patentino C4Z, Cittadino a Quattro Zampe ® ed essere così un esempio di educazione civica canina!
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